Recensioni

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DAL 2015 AL 2023

Dopo che tutte le fortezze sono state espugnate

I.

Chi vive dentro ad una fortezza è abituato a percepire il confine come una forma di destino. Perché le mura e i fossati che proteggono le case addestrano lo sguardo di chi le abita. Una linea fortificata è anzitutto un monito che insegna a separare il dentro dal fuori, l’alto dal basso, il conchiuso dall’infinito, la forma dall’informe. Lo sguardo di chi impara a seguire i confini sa che dagli spazi aperti può arrivare di tutto: tesori, mercanti, predoni, guerrieri, semplici vagabondi, disperati, santi, turisti. Si costruiscono mura di oltre 6 km, come per esempio quelle venete tardo cinquecentesche che ancora incastonano Bergamo Alta, perché si spera, così, di contenere le forze ostili che abitano gli spazi aperti. Perché chi fortifica i confini valuta, non sempre a torto, gli spazi aperti come una minaccia. Eppure, proprio le mura di Bergamo, qualcosa dovrebbero insegnare sulla pretesa umana di assegnare ad ogni confine un destino. Ventisette anni di lavori furono necessari per portare a termine la cinta muraria con i suoi quattordici baluardi, le trentadue garrite, le cento aperture per i cannoni, oltre alle due polveriere e alle quattro porte. Un progetto urbanistico poderoso che aveva lo scopo di rendere la città medievale inespugnabile; e che non servì a nulla. Furono distrutte case, cascine, conventi; perfino otto edifici religiosi, compresa la cattedrale di Sant’Alessandro, che conservava le reliquie del patrono della città. Un’opera di distruzione immane. La città fu ferita, amputata per sempre delle sue ali, per diventare una fortezza a bastioni che non sarebbe però mai sopravvissuta ai nuovissimi cannoni bombarda, se mai l’avessero colpita; e non avvenne. Di lì a poco cambiarono le tecnologie militari e i confini; sparì Venezia con i suoi leoni, sopraggiunse Vienna e nessun esercito ostile si presentò mai più di fronte a Bergamo per cercare di espugnarla.

 

2.

Luisa Balicco abita poco sotto le mura venete che incastonano, ancora illese, Bergamo Alta. Dal suo giardino si può seguire la linea spezzata dei bastioni imponenti che incastonano la città come uno scrigno. Non stupisce che il movimento forzato di queste linee si trasformi, nel suo sguardo, in una matrice inconscia capace di orientare l’osservazione dello spazio e della vita. Nonostante la moltiplicazione delle forme, dei supporti e delle tecniche - nella sua opera troviamo mappe, recinti, libri, totem, alfabeti, cartoline, origami, leporelli – la ricerca estetica di Luisa Balicco è, infatti, profondamente unitaria. Ci ammonisce: siamo circondati da recinti, fortezze, confini, mura: sono materiali e invisibili. Le abitiamo. Lei stessa le produce di continuo nelle carte che assembla. Lo sappiamo bene, è un gesto ambivalente: senza una protezione, senza un’inquadratura, senza una forma, non si può capire, né osservare alcunché. E poi però – continua - c’è lo spazio esterno, l’infinito che si estende al di là di ogni linea. La meccanica dei destini che non possiamo controllare. Ed ecco allora gli infiniti microcosmi, i paesaggi subacquei minati, le rovine di mura, i tesori sepolti, i cammini e i naufragi: servono le mappe per muoversi al di là delle fortezze, soprattutto quando, le mura, ormai, non proteggono più nulla. E lei, meticolosamente, le mappe le disegna. Si guardi alla serie delle città mitiche scomparse o delle mine in mare o dei cammini e il piano di lavoro diventa subito chiaro: le forme che il passato ci lascia in eredità sono state disattivate, sopravvivono come tracce, le fortificazioni sono per lo più rovine: non interessano più a nessuno. Siamo liberi, certo, ma esposti alla furia dell’impazzimento generale. Quando le fortezze cadono resta solo lo spazio aperto; ma è informe e assomiglia sempre più ad un deserto mortifero. Le vie di fuga ci sono, qualcuno le sfida; ma i cammini spesso si bloccano di fronte ad altri muri, altri recinti. Le porte non si aprono e gli angeli non parlano più, come ci dicono i due testi stupendi – di Heinrich Böll e Simone Weill – attorno a cui la mostra ruota. Al centro di questa meditazione sul nostro destino, dopo che tutte le fortezze sono state espugnate, sta l’impaginazione di un libro che raccoglie collages su carta hanji e cianotipie: è un omaggio all’opera di Winfried Sebald, alla sua Storia naturale della distruzione. Cosa succede quando il confine diventa un filo spinato e il destino degli umani un enorme campo di concentramento? L’enigma della nostra distruttività appare in questi fogli nella sua infantile purezza: sono referti inequivocabili di un male banale che la cianotipia trasfigura e su cui balena l’immagine di un angelo sconvolto, ammutolito.

 

3.

Ma esistono altri destini possibili oltre a quello, francamente stupido e umanissimo, dell’autodistruzione? L’arte, infondo, se serve a qualcosa serve proprio a questo: a desiderare la vita nonostante gli umani. E se le fortezze sono state tutte espugnate e se lo spazio informe che si apre all’infinito ci spaventa, si può sempre ricominciare a progettare piccole protezioni portatili, bussole, mappe, libri, strumenti efficaci perché delicati come ali di farfalla. E allora ecco le nuove tipologie di confine che lo sguardo di Luisa Balicco perimetra come oasi sottratte al deserto. Anzitutto le intersezioni fra i regni, come testimoniano le cartoline spedite al mondo delle ombre che non ci deve spaventare perché persiste, essendo il nome della nostra metamorfosi. E ancora: la creazione di nuovi alfabeti, la trasformazione delle parole in immagini - come nei testi pittorici che accompagnano le poesie di Ambrogio Previtali; infine, l’immedesimazione nella vita animale, perché la stupefazione del cervo di Mogwol, che si ferma nella foresta per osservare la bellezza di una nuvola che dilegua, torni ad essere anche nostra. Per andare da un’oasi all’altra servono però vessilli, indicazioni, segnali, strumenti di orientamento: e a questo forse alludono i preziosissimi totem metallici, di ferro e di ottone, progettati da Ignazio Bellini, che sorreggono fogli di plexiglass trasparente su cui stralci di poesie e di materiali organici sono rappresi in carta hanji. Come le preghiere dei tempi buddisti, sono strisce di carta esposte al vento perché proteggano il futuro di ciò che vive.

 

Daniele Balicco

 

Compendio di storia dell’umanità grazie a qualche opera di Luisa Balicco

 

“Credo nel sole anche quando piove”

Anne Frank


Recensioni In una via intitolata ad un Santo e che sale verso la città alta di Bergamo, Luisa Balicco possiede un bello studio; è un luogo compresso e telefonicamente isolato dove, tra mille altri oggetti tutt’ attorno, ricoverati in alcune cassettiere, dei libri sono pazientemente in attesa che qualcuno li apra.

Non sono propriamente dei volumi, dei prismi a sei facce rettangolari composti di sottili lamine di carta, sono piuttosto dei codici o dei rotoli di carta, dei contenitori di storie illustrate e, solo talvolta, presentano un frontespizio, un'epigrafe in corsivo, una prefazione e alcune pagine vuote.

Dagli scaffali appoggiati alle pareti dello studio anche alcune composizioni metalliche attendono tranquille; se ci si accomoda in poltrona e magari si prende un caffè con l’artista, lentamente questi oggetti caleidoscopici potrebbero iniziare a raccontare: “Prima era il Cielo, poi vennero il Mondo e i Mari e i Fiumi” ed è così che in via Sant’Alessandro si vola.

Ci accompagna l’Angelo della Storia, con i grandi occhi spalancati e l’armatura cesellata; ci solleva con sé, oltre l’Europa e le colonne d’Ercole, oltre Varanasi e i suoi edifici senza tempo finché infine si volta ad osservare.

Dipingere o usare le arti visive per descrivere gli Olocausti o le guerre mondiali, è cosa impervia, per ogni arte lo è; non bastano singole immagini a fare sintesi di quanto accadde.

Forse per approssimarsi al tema è necessario sezionare l’argomento, ridurlo a singole parti che permettano di afferrarle, di elencarle, appuntarle con la precisione del cambusiere; oppure, al contrario, ci si può allontanare di molto, fino a rimpicciolire i fatti, fino ad essere così distanti da poterli afferrare con un solo sguardo come accadrebbe con un triangolo disegnato su di una lavagna.

Luisa Balicco sceglie un punto di vista aereo, elevato molte migliaia di metri dal suolo, un non luogo (ma come potrebbe lo spazio infinito essere un luogo?) dove certamente può spingersi un Angelo ma anche un quadrimotore stipato di bombe incendiarie diretto su Dresda. Là dove il silenzio è quasi perfetto, lo scempio sonoro delle eliche a motore suona come una emorragia nell’ordine celeste. Le immagini al suolo sono piccole al punto da non sembrare vere; immaginiamo uomini a bordo dei veicoli, ma sono blindati nella carrozzeria e non si possono vedere. L’ordine simmetrico in cui gli aeroplani procedono, similmente a stormi, è di una geometria troppo elegante per sembrare la premessa al disastro; di lì a poco il fragore delle esplosioni rimbalzerà, il paesaggio da verde si farà nero e rosso mentre il cielo si ribalterà nella cabina di pilotaggio. La Morte apparirà fisicamente nelle sembianze di una desertificazione istantanea.

Siamo una generazione che si è smarrita nella Storia, nella bufera della Storia e nei secoli brevi; dalle guerre combattute evinciamo soprattutto la statistica, sappiamo contare le cose esaurite o distrutte, i congegni bellici consumati e da sostituire. Non contano i combattenti spezzati, i feriti, i gasati, gli amputati: in Occidente, da Verdun in avanti, abbiamo perso il contatto con il genere umano e l’insignificanza dell’uomo è ciò che interessa alla guerra. Di quella Mitteleuropa così devastata dai conflitti del XX secolo percepiamo lo sgomento per la perdita del senso dell’esistenza umana.

Nel 1944 Francis Bacon dipinse “tre studi per figure alla base di una crocefissione” che da soli spiegano, in modo definitivo, come il compianto per la morte dell’Uomo si è trasformato in rabbia belluina e deforme, aggressiva e feroce e come la pietà non abbia più dominio. Nel 2023 la radio parla ancora di trincee, di allarmi suonati per tutta la notte e popolazioni ricoverate nei rifugi della metropolitana.

L’Angelo della Storia osserva in silenzio, porta sull’armatura il rilievo della Gorgone dallo sguardo mortale; se mancherà il coraggio di fissare una realtà capace di pietrificare, di entrare con lo sguardo nella profondità della ferita, di urlare contro l’afasia che il XX secolo ha consegnato al futuro, saremo costretti ad accettare la rimozione come prassi di adattamento, come sola puerile strategia per sopravvivere.

Nel mirabile libro di Winfried Sebald “Storia naturale della distruzione” un libro che parlerebbe, secondo l’autore, di poetica, si racconta di come gli occidentali siano stati sedotti dalla rimozione, così da procedere senza preoccupazioni verso il progresso: ma il progresso è una bufera potente che sovente ha significato l’affermarsi di mondi distopici.

Luisa Balicco dipinge la Storia con colori tenui e delicati, come una Parca che vive nel XVIII secolo, come un’amica di Watteau o di Goya; lo fa su supporti di carta creati da lei stessa, ricchi di pieghettature, filamenti e filacci: potremmo definirle carte che portano in sé storie preliminari, memorie di altri oggetti, di altri stati della materia, di altre mani che hanno lavorato. I fogli vengono poi raccolti e rilegati a forma di libri, forme bizzarre per lo più per via delle anomale estensioni e delle piegature da origami.

Una forma spesso utilizzata dall’artista è quella della mappa, però più simbolo di affermazione della nostra esistenza che strumento di orientamento: le mappe codificano il miracolo dell’esistenza.

Quando l’osservatore guarda al loro interno i rilievi o i paesi che vi sono delineati, ne percepisce una vera e gradevole descrizione, possiamo trovare ad esempio l’oceano, con onde grandi come montagne che si sono sollevate fino al cielo; oppure le rocce, che trattengono nel muschio i versi di un poeta lontano, il cui nome si è perso ma né lo storico né il cartografo sono in grado di riprodurre la realtà che cercano di comunicare: non si può creare una mappa perfetta, mai.

Forse, invece, l’artista… Luisa Balicco ha un’insolita visione acuta per il reale, in queste opere ipnotiche presentate in mostra, lavori sospesi tra mondi, tra secoli di tragedie e quanto di più alto la nobiltà umana sappia esprimere, non si coglie il pessimismo ma l’adesione ad uno scorrere del tempo in scala più vasta, almeno secolare, millenaria, un tempo così ampio che persino la morte viene integrata nell’ordine generale. Il tempo muove un logorio attivo e potente, la Natura esercita una pressione da annichilire le gesta umane e quello che resta dell’uomo è forse altro.

In queste opere la presenza umana non può che essere testimoniata da alcune tracce, alcuni segni: frammenti di poesie e di scritture, edifici scalfitti nelle fondamenta, qualche foto; persino i richiami espliciti alla Storia dell’Arte sono annientati e scompaiono.

Lo stesso linguaggio pittorico impiegato non smette di arricchirsi e distruggersi in una sperimentazione continua; delle tante prove persiste la materia essenziale di cui sono composti quasi tutti i lavori che, in termini antropologici, è quanto di più duraturo l’uomo è riuscito a creare: con amaro scherno del destino, la fragile carta e, più comprensibilmente, il metallo forgiato.

L’intera opera di Luisa Balicco ha una spiegazione intelligibile, comprensibile, come quei sogni che raccontano una realtà altra, tangibile, materica in quanto fatta della stessa pasta granulare e atomica di cui sono fatti i nostri pensieri e i nostri sogni. Infatti se l’opera di Luisa è un’opera mondo, è proprio perché la sua sostanza, la sua composizione non è lontana dalla composizione della realtà, intesa come la più alta tra le realtà possibili. Ė anche la realtà di tutti i giorni, fatta di pensieri, azioni, omissioni, emissioni, ricordi, inazione, fraintendimenti, intendimenti, parole che son fatti, e fatti che sono parole, obiezioni, contrarietà, ammissioni e via dicendo ad infinitum.

Tutto, tutto il reale, si vuole descrivere, un reale animato in cui nulla si crea, nulla si distrugge e tutto cambia. Eternamente senza apparentemente uno scopo che, sensibilmente, sia dato comprendere.

Claudio Rota


2023

Alla Galleria Ceribelli mostra di Luisa Balicco

Bergamo. Visitiamo la mostra di Luisa Balicco alla Galleria Ceribelli, aperta fino al 29 aprile. Sui due piani della galleria si snoda una serie di carte realizzate in carta Hanji su temi suggestivi relativi alla storia umana e al destino del pianeta.

“Storia naturale della distruzione” e “L’angelo tacque” sono temi tratti dagli omonimi libri rispettivamente di Winfried Sebald e di Heinrich Boll, autori che furono coscienza critica della Germania del dopoguerra e che condannarono la barbarie e la brutalità compiute e subite dagli uomini negli anni del conflitto.

Secondo il primo, dopo le immani risorse profuse nella costruzione di aerei e ordigni, non sarebbe stato concepibile per gli Alleati non scaricare le bombe sulle città, cioè sul loro naturale bersaglio; secondo Boll, nell’immediato dopoguerra, sulla Germania vegliava un angelo senza più parole, capace solo di tacere sulla bruttura che era discesa sul mondo.
Nelle opere su carta di Luisa Balicco, ispirate alle tragedie di ogni epoca, dalla rovina di Troia alle macerie di Berlino e quelle di altre città devastate nel secondo Novecento, si ritrova la stessa pietas verso uomini e oggetti che ispira tante pagine delle predette opere letterarie.
Balicco si cimenta da più di 10 anni con la carta Hanji: si tratta di un lavoro così specifico e dedicato che il consolato Coreano per EXPO2015 l’ha invitata a esporre nella sua sede come prima artista convocata.
Tutti i fogli in mostra alla Galleria Ceribelli sono in carta Hanji, esclusi i libri.
Tra questi, segnaliamo un libro di cianotipia con immagini della prima e seconda guerra mondiale, con tracce di città distrutte, impronte di luoghi abitati, da Norimberga e altre città tedesche, a Varsavia, a Hiroshima, che si chiude con l’angelo pietrificato, carico di armi.
Sono consultabili anche alcune “Mappe per chi resta e per chi fugge”, realizzate da Balicco a forma di case, secondo la modalità di rilegatura usata in antico dai Turchi: chi fugge pensa sempre alla casa lasciata, però le strade segnate sulle mappe possono anche portare nel nulla o al mare minaccioso che non salva.
Le stesse strade ai margini del mondo che l’artista annota sulle carte alle pareti, dove si contano le impronte di un’umanità migrante i cui viaggi sono la summa di luoghi abitati e abbandonati, che lasciano permanenze irradianti ancora luce.
Nell’assenza di figure umane si sente però la presenza ingombrante di un’umanità che ha costruito strumenti di morte, lasciandosi alle spalle lande dove non c’è più nulla se non tracce lontane di civiltà scomparse e dove l’ambiente è irrimediabilmente compromesso.
Uno spazio a sé è dedicato al libro Jikji, il più antico libro esistente al mondo stampato con caratteri mobili in metallo: realizzato in Corea attorno al 1377, è un testo preziosissimo in cui l’identità coreana ritrova le sue radici.
A conclusione del percorso espositivo, la serie poetica di “carte postali” inviate da Orfeo a Euridice, realizzata su fogli di rame dipinti, con testi di Ambrogio Previtali.

Stefania Burnelli
https://www.bergamonews.it/

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“L'immaginazione è un albero.

Ha le virtù integratrici di un albero.

È radici e rami. Vive tra terra e cielo.

Vive nella terra e nel vento”

Gaston Bachelard


Recensioni Intrecciando il duplice filo della memoria individuale e di quella storica, dell'immaginazione e della verità mitica, Luisa Balicco allestisce le sue opere come luoghi incantati, jardins extraordinaires, santuari, cittadelle inviolate, sorta di hortus conclusus in cui alberi e parole, ombre e luccichii, nuvole e pensieri, creature fantastiche e sonorità misteriose albergano discreti in assemblaggi inauditi: una poetica dell'accumulo, della stratificazione, dell'accrochage, in cui i diversi frammenti agiscono da catalizzatori del senso e costruiscono mappe per attraversare i labirinti della memoria.

Estranee ed esterni ai luoghi comuni e alle dispute dell'arte contemporanea, questi lavori tematizzano la scommessa di una grammatica “ altra”, una lingua arcana e senza tempo dove natura e artificio, sasso e metallo, foglia e scrittura, celebrano la resurrezione quotidiana del meraviglioso, dell'inatteso, del sorprendente. Un lavoro fortemente autobiografico, introspettivo e memoriale, che parla del sé e delle verità nascoste tramite le figure e gli archetipi più spesso incrociati e interrogati dall'artista nei suoi ricorrenti incontri con i poeti, gli scrittori, i musicisti, i pittori più amati: Dickinson, Calvino, Mishima, Tanizachi, Klimt, Utamaro, i tragici greci, la Torah,Kerenyi, Colli, Jung, Calasso, ecc...

La mostra, la prima personale di Luisa Balicco in uno spazio espositivo pubblico, è costituita da due sezioni distinte, anche se in intima relazione tra loro, denominate Bosco Sacro e Recinti delle Ninfe.

Nella prima, una sequenza di sculture-albero, costituite da sorprendenti ibridazioni di radici e nastri, ingranaggi e pietre, rami e fili d'oro, forme vegetali e metalliche, evoca la memoria di antichi e futuribili rituali, di fiabe perdute o da inventare, di saghe e leggende mitiche fiorite nei boschi greci cari ad Apollo ed Artemide, in quelli della Gallia dove i Druidi incontravano le divinità e officiavano i culti, in altri più lontani alle Porte di Orione.

Agli alberi, che con la loro verticalità uniscono il cielo alla terra, il sacro al profano, il visibile all'invisibile, gli uomini hanno sempre chiesto protezione e conforto, illuminazione e consiglio, come dimostrano figure di straordinaria pregnanza simbolica quali l'Albero della Vita, l'Albero della Conoscenza, l'Albero del Bene e del Male, l'Albero della Cabala, l'Albero Cosmico o Axis Mundi che “ si sviluppa in maniera rotonda, dando pian piano al proprio essere, la forma che elimina la volubilità del vento” (Rainer Maria Rilke). In tempi arcaici i luoghi sacri rappresentavano il cosmo in miniatura ed erano fatti di alberi, pietre e acqua, oppure di un recinto sacro che conteneva un altare, una pietra e un albero come se ne trovano ancora oggi in India e in tutto simili a quello presso il quale il Buddha sedette sacrificando il proprio sé individuale e ottenendo l'illuminazione.

La sezione I giardini delle Ninfe, coniuga la predilezione dell'artista per il giardino, luogo di miracolosi incroci tra natura e cultura, fra contemplazione e meditazione, e la sempre vigile attrazione per le creature mitiche di sesso femminile: le ninfe in questo caso (dal greco antico “ giovane fanciulla”), affascinanti e pericolose, inafferrabili e fugaci, appena intraviste tra i riflessi argentei del fiume e il cupo fogliame della selva. Nella preziosa serie di opere pittoriche qui presentate per la prima volta la cifra incantata di questo mondo balenante ed arcano è evocata combinando e sovrapponendo foglie d'oro, strati di carta sottilissima, carta di riso, velature di colore nelle raffinate tonalità dei viola, dei verdi, dei blu, degli aranci. Il risultato, al di là dei riferimenti alla cultura astratta e informel e degli omaggi alla tradizione artistica orientale (da Bisanzio al Giappone), è una tessitura sapiente di luci e suoni, di profumi e riflessi che alludono tanto al sottobosco fradicio di pioggia e ai fiori macerati dall'acqua quanto alla luce della luna che alle ninfe è cara.

 

Enrico De Pascale – ph. Federico Buscarino

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Sculture e messaggi celati

Un temporary shop dedicato all’arte. Pittura, installazioni, carte, libri e giardini misteriosi.

Recensioni“Il Giardino Roccioso. Una grande isola di metallo, liscia e articolata, il giardino è doppio, rocce scolpite e parti irsute dalle spaccature, escono o entrano, radici rosse.”

 

Mentre Luisa Balicco descrive il suo lavoro sui giardini nella mia mente si aprono altri giardini e altri mondi, il primo di tutti è idealmente abitato da quella grande artista che fu Louise Nevelson.

Ucraina naturalizzata Statunitense, nata nel 1904 e conosciuta in tutto il mondo per il suo lavoro astratto-espressionista, per le sue “casse” raggruppanti oggetti abbandonati e giustapposti per formare nuove creazione. La Nevelson ha usato le cose di tutti i giorni scartate dall’uso per dare nuova vita mediante i suoi assemblaggi, opere totemiche cariche di segni e riferimenti iconografici, ignoti alla maggior parte dei suoi contemporanei eppure oggi riconosciute e valutate come grandi opere d’arte.

Era solita dire: “Quando si mettono insieme cose che altre persone hanno buttato via, stai veramente dando vita… una vita spirituale che supera la vita per la quale sono state originariamente create”.

Questo pensiero è sotteso anche nella produzione di Luisa Balicco che guarda ai suoi giardini e parla con gli occhi allo stesso modo della Nevelson mentre dice che “il giardino è diviso in due da una spada che lo separa, e poi fuori unʼisola di stelle è un osservatorio lunare. La porta svetta alta e inviolata e lʼombra dellʼantenato è sicura sentinella”.

Io penso sia strano che qualcosa di simile ad un uomo abiti lo spazio inaccessibile e così ostile di quel giardino.

 

Alessandra Corti – ph. Federico Buscarino

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Tridimensioni, pittura, collocazioni, carte

Personale di Luisa Balicco - Provincia e Mostre, Maggio 2011

RecensioniPer la prima volta a Bergamo un temporary store diventa luogo d’arte.

“Il Giardino Roccioso. Una grande isola di metallo, liscia e articolata, il giardino è doppio, rocce scolpite e parti irsute dalle spaccature, escono o entrano, radici rosse.”

Mentre Luisa Balicco descrive il suo lavoro sui giardini nella mia mente si aprono altri giardini e altri mondi, il primo di tutti è idealmente abitato da quella grande artista che fu Louise Nevelson.

Ucraina naturalizzata Statunitense, nata nel 1904 e conosciuta in tutto il mondo per il suo lavoro astratto - espressionista, per le sue “casse” raggruppanti oggetti abbandonati e giustapposti per formare nuove creazione. La Nevelson ha usato le cose di tutti i giorni scartate dall’uso per dare nuova vita mediante i suoi assemblaggi, opere totemiche cariche di segni e riferimenti iconografici, ignoti alla maggior parte dei suoi contemporanei eppure oggi riconosciute e valutate come grandi opere d’arte.

Era solita dire: “Quando si mettono insieme cose che altre persone hanno buttato via, stai veramente dando vita… una vita spirituale che supera la vita per la quale sono state originariamente create”.

Questo pensiero è sotteso anche nella produzione di Luisa Balicco che guarda ai suoi giardini e parla con gli occhi allo stesso modo della Nevelson mentre dice che “il giardino è diviso in due da una spada che lo separa, e poi fuori unʼisola di stelle è un osservatorio lunare. La porta svetta alta e inviolata e lʼombra dellʼantenato è sicura sentinella”.

Io penso sia strano che qualcosa di simile ad un uomo abiti lo spazio inaccessibile e così ostile di quel giardino.

 

ph. Eugenio Buccherato

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Luisa Balicco (Bergamo 1946)

RecensioniAttiva da diversi anni sulla scena artistica locale e nazionale, Luisa Balicco (Bergamo 1946) è personalità eccentrica e difficilmente classificabile. I suoi lavori, concepiti come una sintesi di pittura, grafica e arte installativa, testimoniano una molteplicità di interessi che variano dalla letteratura alla musica, dalla poesia alla storia dell’arte. Viaggiatrice colta e instancabile, ha messo a punto un suo personalissimo linguaggio espressivo in cui figure e forme di natura archetipica si intrecciano con la pittura e la scrittura, quest’ultima utilizzata nella duplice accezione di segno e significato, deposito di memoria e profezia.

La sua opera, irresistibilmente legata al mondo del libro e della pagina scritta, realizza una poetica dell’accumulo, della stratificazione, dell’accrochage, in cui i diversi frammenti (carta, tessuti, lamine d’oro, foglie, concrezioni ecc.) costituiscono affascinanti quanto misteriosi labirinti, giardini, mappe per i viaggi della mente.

Le creazioni di Luisa Balicco magnificano nei modi più inattesi e sorprendenti le proprietà trasmutanti della carta, che l’artista da sempre manipola e trasfigura in quanto medium espressivo tra tutti privilegiato.

Dalle carte leggerissime ai grevi fogli di carta di riso, dalla carta da pacco e da parati ai fogli di papiro e alle carte consunte in cui si avvolgono i cibi, non c’è materiale cartaceo che Luisa Balicco non abbia sperimentato, combinato in strati sovrapposti, incollati e pressati, ora stropicciati, strappati, ridotti a sottili strisce.

Il suo primo incontro con la pasta di cellulosa e le tecniche di elaborazione, avviene alcuni anni fa nel laboratorio bolognese “Il navile” di Renata Giannelli, tra vasche piene di morbida “poltiglia” con colori di ogni tipo, che le comunicano un inusitato piacere fisico e intellettuale. In quel luogo ha cominciato a produrre un personalissimo diario, inglobando nella pasta di cellulosa materiali fra loro disparati, connessi al suo immaginario e al suo vissuto di donna, intellettuale, artista, docente.

Nella sottile architettura dei fogli ha quindi prodotto tagli e brecce, ha fatto emergere nuovi aspetti e nuovi frammenti, parti di un discorso ininterrotto.

Alcuni di questi fogli sono stati appesi come abiti sulle grucce o come stendardi dall’alto di esili torri, altri hanno formato libri grandi e piccoli, trafitti di parole e colori, sussurri e bagliori, sempre valorizzando le straordinarie qualità del materiale, con il suo carico di pieghe ribelli e imprevedibili, bolle e increspature, rigonfiamenti, avvallamenti e crateri, dalle cui profondità altri mondi occhieggiano con la promessa di sempre ulteriori sorprese.

Il senso incantato di questo mondo balenante e arcano è evocato combinando e sovrapponendo sedimenti, campiture di colore nelle tonalità più amate: i viola, i rossi, i neri. Il risultato è una tessitura sapiente di luci, suoni e riflessi che sono il ritratto stesso dell’artista il suo analogon in termini espressivi e formali. I recenti libri d’artista si configurano tramite complessi leggii , progettati e lavorati ad hoc da mani esperte e sapienti.

Non si tratta di semplici supporti bensì di parti integranti del lavoro, che se da un lato lo impreziosiscono con le loro qualità plastiche e spaziali, dall’altro suggeriscono allo spettatore-lettore-esploratore nuove chiavi di lettura e ulteriori modalità d’approccio. Estranei ai luoghi comuni e alle dispute dell’arte contemporanea, i suoi lavori tematizzano la scommessa di una lingua “altra”, arcana e con altri tempi, dove natura e artificio celebrano la quotidiana apparizione del meraviglioso, dell’inatteso, del sorprendente. Un lavoro fortemente autobiografico e introspettivo che testimonia i percorsi intellettuali e creativi compiuti nel corso degli anni dall’artista (ha occupato la cattedra di Discipline Pittoriche al Liceo Artistico di Bergamo dal 1970 al 2005).

 

Enrico De Pascale – ph. Federico Buscarino

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“Sol per sfogare il core”

Le isole-giardino di Luisa Balicco

RecensioniAllestita in un temporary-shop cittadino, l'ultima mostra di Luisa Balicco si presentava come una costellazione di opere-s atelliti disseminate nello spazio, un agglomerato puntiforme di figure e segni complessi che invitavano lo spettatore alla trasmigrazione da un'opera all'altra seguendo impercettibili ma irresistibili traiettorie. Concepita per stazioni, per nuclei plastici distinti ma tra loro intimamente interconnessi, l'esposizione allineava una dozzina di opere distribuite lungo le pareti, in mezzo alla sala, nello spazio della vetrina che affaccia sulla strada, secondo un modello di fruizione “itinerante” in cui ciascuna opera era al tempo stesso autonoma e parte di un insieme, indipendente ma intimamente correlata alle altre.

Sollevate su esili aste metalliche le opere si ergevano nello spazio dialogando a distanza, alludendo a un insieme di opere-isole, a una struttura al tempo stesso chiusa e aperta simile a un arcipelago.

Ad accentuare questa impressione la fisionomia stessa di una parte dei lavori, sorta di atolli adagiati su piattaforme di vetro in cui elementi naturali direttamente prelevati dalla realtà (sassi, conchiglie, rami, radici, foglie, piume, frutti e fiori seccati ecc.) dialogavano e si intrecciavano con enigmatiche e misteriose figure – sorta di stele, vessilli, cupole, portali, matrici, pinnacoli – realizzate in rame, bronzo, argento, oro, osso, legno, pietra. Il ricercato connubio di forme reali e create, naturali e artificiali (modellate, sbalzate, tornite) costituisce fin dagli esordi il modus operandi dell'artista, la cui indagine è orientata alla costruzione di micromondi fantastici mescolando non solo materiali eterogenei (vegetali e minerali, metallo e carta, vetro e piume) ma anche tecniche differenti (pittura, scultura, disegno, scrittura, installazioni).

Del tutto estranei alle dispute dell'arte contemporanea tali lavori tematizzano la scommessa di una lingua “altra”, arcana e senza tempo, dove naturalia ed artefatti, conchiglie e disegni, danno vita ad accrochages mai visti, che trovano riscontro solo in certa letteratura del fantastico, nei racconti mitologici, nelle bizzarrie manieriste, nella poesia o nella grafica surrealiste. Leggi tutto...

 

Enrico De Pascale – ph. Sara Luraschi

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Per Luisa e Rosi

Prefazione al libro “ Legami Lega Me” di Rosangela Pesenti

RecensioniScrive un poeta spagnolo del ‘500, F. de Quevedo, “Polvere sarò, ma polvere innamorata”

E scrive Lella Ravasi che lo cita in un suo libro ( 1 )

“È per una presenza fortissima d’amore che possiamo entrare nella vita, è per una presenza fortissima d’amore che possiamo uscirne; ci si rompe la testa su come lasciarne memoria”.

In questo mistero c’è il rapporto con la madre. Il rapporto con sua madre, che Luisa racconta nella luce intensa delle lacche rosse e dell’oro che sembra illuminare un mezzogiorno autunnale e nelle ombre di colori indecifrabili, varietà di pigmenti e materiali morbidi come velluti, che offrono la loro carezza alla discesa nel buio dell’anima lungo le impreviste scale interiori di ognuno.

Luce e ombra di un corpo a corpo continuamente asimmetrico fino alla fine, quando la differenza diventa confidenza e poi solo silenziosa fiducia.

Celebriamo un rito laico della vita e della morte che noi abbiamo diviso nelle parole ma che restano unite nel sentimento che ognuno ha di sé, in quel sapere del corpo che ci accompagna e ci salva nel mutare ininterrotto della fisicità intorno al rovello dei pensieri.Veniamo misteriosamente da un grembo di madre che si fa ricettacolo della mescolanza di storie diverse e lontane, lungo il cammino di una specie che conserva labili memorie delle origini e andiamo verso una trasformazione incessante che sappiamo raccontare solo per approssimazioni fino all’ultima impossibilità. Luisa è con le sue opere una narratrice d’amore, di quel mistero atemporale che ci consegna al tempo, non solo quello dell’umano, ma al tempo profondo della vita, che è pietra e albero e battito d’ala, sussurro, caleidoscopio, fruscio di stelle. Qui, accanto alle parole della madre, di Rosi, Luisa acquieta i suoi fantasmi espressivi nella misura piccola di un quaderno in cui accompagna con vibrazioni di luce e vampate d’ombra la grafia incerta di Rosi e ci restituisce il senso di una separazione che diventa compimento. Un quaderno misura lo spazio che intercorre tra le mani e lo sguardo, è una porta che può essere continuamente aperta e richiusa. Chi apre questo quaderno sa di trovarsi vicino alla parola e immerso nel silenzio: essenziali, pulite, pudiche sono le parole amorevoli di Rosi in cui possiamo riconoscerci, per quell’amore che ognuno può ritrovare dentro di sé per una città o una bambina; nel colore denso che Luisa profonde con il suo tratto sicuro siamo circondati dal silenzio, come in un giardino incantato, dove ascoltare il limite dei giorni amati non diventa disperazione e aspettare il buio diventa quell’esercizio di pazienza che certo è stato all’origine di ogni scrittura e ancora ci sollecita al rischio di pensare e di vivere trovando il ritmo più adeguato al nostro essere. C’è un’eredità che si passa solo attraversando intero il dolore della separazione, un sapere che si può ricevere e scambiare solo nella consapevolezza che il valore delle relazioni umane è la vicinanza. Dove i corpi si sono ri-conosciuti la parola e il colore che ci regalano sono testimonianza dell’indicibile, legami che ci attraggono perché rassicurano sulla possibilità del cammino.

Un lascito per Luisa e un augurio per ognuno di noi, le parole di sua madre.

 

(1) Silvia Lagorio, Lella Ravasi, Silvia Vegetti Finzi - Se noi siamo la terra. Il Saggiatore 1996

Per Luisa ed Ignazio

di Rosella Morri

Sono spesso con Luisa ed Ezio, viaggi importanti o semplici passeggiate. In quelle occasioni ho potuto osservali soffermarsi ora su un sasso, ora su un ramo o un tronco; osservare ciò che attraverso occhi curiosi e partecipi aveva già una sua ragione e una sua collocazione. La mia generazione, appena successiva alla loro, ha chiuso il periodo della ricerca paziente di Le Corbusier e degli artisti del XX secolo.

E da quella stagione ci siamo proiettati tutti nella ricerca impaziente. Tutto era improvvisamente Post e tutto doveva dichiarare la sua novità e la sua provvisorietà. Ma i tempi cambiano ed ora da più parti si torna alla pazienza degli antichi, quelli più antichi: i raccoglitori, i tessitori, gli artigiani dell’oro del ferro e dell’osso. E così ho potuto assistere con compiaciuto stupore al mito che torna, mito che è racconto di noi, della parte più profonda e segreta. Mito, paziente estrazione di una sapienza antica di colori trame e materiali. Il mito del fare. Il prof. Sini dice arte è ciò che non è inerte che non sta fermo, che “ danza”, che ha ritmo. Ecco ciò a cui io ho assistito in questi lunghi mesi di lavoro e di ricerca: quello che vediamo è la danza dell’uno nell’altro da sé. La loro casa lentamente è diventata la fucina di Efeso e l’aia di Psiche che separa la crusca dal grano. Il rituale che si esprime in antichi gesti ripetuti con pazienza e silenzio, una forma concreta di un intimo discorso.

Il maschile diventa il sostegno e completamento di una trama di significati femminili da cui non può scindersi. In questa mostra vediamo l’unità del pensiero che si esprime nella differenza.

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