Ho sempre preferito lavorare su carta sin da quando ho iniziato a dipingere. Nel primo lavoro esposto nel 1974 al premio Oprandi ho presentato un monotipo su carta Rosaspina, anni dopo con carta velina bianca ricavavo positivi da calchi in gesso di mani, corpi, volti. Forme leggere quasi fantasmi che però conservavano perfettamente la tipologia fisica, di rughe, pieghe, tratti somatici; le collocavo su forme naturali, rami, alberi. Quando ho iniziato a lavorare su forme tridimensionali la carta era sempre presente. Come? Per ogni opera un lungo foglio di progettazione, a volte di 4 o 5 metri, affiancava l’evolversi del lavoro e ne era parte integrante. Queste strisce di progettazione erano supporto e chiarificazione nell’evolversi del lavoro tridimensionale. Nei fogli, i pensieri venivano esplicitati con disegni, riflessioni scritte e dipinte, prove cromatiche e tecniche, erano l’approfondimento di quanto stavo facendo sulle opere tridimensionali. Quando insegnavo, nel triennio superiore, volevo che la dimensione del foglio fosse dai 5 ai 10 metri, vi lavoravano più persone e dovevano imparare ad affrontare insieme, la progettazione del tema e a condividere convivenza e spazio. Ho viaggiato molto, al ritorno portavo pacchi e rotoli di carta, programmavo visite a cartiere artigianali e, dove fosse possibile, assistevo a laboratori sulla fabbricazione della carta. Così ho osservato le diverse tecniche di preparazione, asciugatura e conservazione. Devo dire che le tecniche artigianali viste in oriente sono di gran lunga più interessanti e varie, sia nell’ uso dei materiali vegetali utilizzati che nella ricchezza delle tecniche operative usate, rispetto alle nostre europee. Ile carte da loro prodotte sono magnifiche. Ho, nel tempo usato carta di ogni tipo per materiali, di differenti grammature, pesanti e leggerissime, colorate, trasparenti, carte preziose o di utilizzo quotidiano. Non le ho mai rispettate, l’operazione principale era la trasformazione. Come? In tutti i modi. Le ho bagnate, tinte, stropicciate, stirate, lasciate sotto strati di foglie in autunno, dimenticate sotto il sole in agosto, le ho cosparse di sali minerali, di liquidi acidi… Solo dopo potevo usarle, erano diventate altro. I fogli non sono mai stati soli, li ho accoppiati con altri fogli, li ho fatti incontrare con altri materiali, ho creato per loro alleanze e famiglie. Sovrapposizione e sottrazioni. Su queste carte ho sperimentato colori di tutti i tipi: oltre a quelli consueti, tempere, acquerelli, colori da stampa, ho provato polveri tossiche, usate in Marocco per tingere la lana dei tappeti, polvere di legni birmani che cambiano colore a seconda del liquido incorporato, limone, aceto, acqua, gli ossidi nella loro infinita gamma cromatica, su inchiostri ho grattugiato gessi colorati, i colori naturali di frutta, semi, verdure, the e tisane con le loro affascinanti muffe. E’ stato interessante vedere come questi colori operino incessantemente sulla carta cambiando nel tempo la tonalità, acquistando trasparenze, sbiadendo, arricchendosi di tono o spegnendosi… E’come, l’arte culinaria, si sperimenta, si aggiusta, si arricchisce, si prova, si elimina. Il risultato finale? Spesso resti stupita, a volte quel risultato non lo ritrovi più, altre volte rincominci da capo e sperimenti di nuovo. Questo mi ha sempre fatto pensare alla fugacità, alla trasformazione, al continuo incessante divenire. Allora inizia la fase di come fissare i colori. Questa è un’altra storia di tanti tentativi.
Negli anni ho realizzato molti realizzato “libri d’artista” anche qui ho dovuto imparare da altri le tecniche del diverso utilizzo delle colle e la loro composizione. I primi libri evidenziano la mia inesperienza su come si devono incollare fogli di natura differenti, usando collanti sbagliati. Ora ho imparato da una brava restauratrice di carte antiche, Nella Poggi, a fare la colla adeguata al differente utilizzo. Con lei ancora oggi incolliamo grandi fogli di carta difficile e leggera come la carta Hanji, un foglio sopra l’altro, carte che aderiscono diventando un foglio unico, ma usiamo solo colle fatte da noi con componenti naturali.
Produco fogli di carta di cotone e di lino fatti in studio, questi fogli particolari, per matericità e consistenza sono diventati quadri. l’impasto spesso, ha permesso che anche su questi io possa lavorare per accumulo e sottrazione, inserisco nell’impasto già pronto nel telaio carte colorate, veline, apro tagli e buchi, incido la pasta con spatole che lasciano tracce e segni, incorporo materiali metallici…mi diverto.
In ogni ciclo di lavoro sono presenti le tematiche che da sempre sto inseguendo, cambiano i modi, le tecniche, i materiali, le dimensioni ma, è stato come inseguire un itinerario che dal mondo della natura, del mito, del viaggio è ora approdato all’umanità intera. Umanità vista come itinerante, abitante di mappe di cammino e distruzione, di fuga, in un mondo dove i confini sono diventati muri invalicabili. Ancora le mappe sono un mondo di carta, in particolare di carta Hanji.
L.B.
Il termine Hanji ha una traduzione molto semplice: “Carta Coreana”, infatti Han significa Corea e Ji Carta. In realtà, non è semplicemente un tipo di “carta”, ma raccoglie in sé la tradizione coreana di cultura, creatività e innovazione.
Cultura perché ha origini antichissime ed è stato lo strumento con cui ci sono state tramandate numerose eredità storiche coreane; creatività perché attraverso questo supporto, molti artisti e non solo, nel corso dei secoli hanno potuto esprimersi; infine, innovazione perché oggi, come ieri, trova nella vita quotidiana le applicazioni più disparate.
Balicco, consapevole del valore di questo supporto, ha voluto omaggiare la carta Hanji e la sua tradizione celebrando il Jikji. Stampato nel 1377, si tratta del primo libro al mondo realizzato con caratteri mobili di metallo, anticipando la Bibbia di Gutenberg di 78 anni.
Nasce così Sinestesi Ieratica, omaggio al Jikji, un’opera a quattro mani che collega il Jikji alle due radici dell’invenzione della stampa: la carta Hanji e la lavorazione del metallo. Non a caso è un’opera a “quattro mani” perché Balicco in questa realizzazione collabora con l’artigiano-artista Ignazio Bellini da sempre attivo nella lavorazione dei metalli.
Sinestesia Sacra diventa dunque un omaggio al Jikji per mano di un’artista italiana, che con il suo spirito creativo, ridona a questo testo innovazione attraverso una reinterpretazione artistica che coniuga l’uso di una carta versatile alla lavorazione del metallo.
Del resto la carta Hanji oggi è apprezzata sia dagli artisti che dai restauratori di carta, grazie alla sua trasparenza, resistenza, adattabilità e purezza, che derivano dalle lunghe fibre di gelso con cui è composta.
Nella Poggi Parigi
La ricerca di Luisa Balicco inizia un’esperienza del tutto estranea a qualunque aspetto narrativo e illustrativo, ove la fantasia si attenua e il sogno diviene una condizione ricorrente. Emerge l’intento di un’esecuzione radicata nella sua natura per rispondere alla spinta del pensiero e all’apprensione dello sguardo. Tramuta il colore delle carte in sentimento, il gesto in riflessione e lascia un’impronta nell’aggrovigliato collegamento tra sensibilità e realizzazione. Evoca il desiderio di un codice tendenzialmente neutro, proprio in noi abituati ossessionati dalla distinzione: alto-basso, male-bene. Si avventura nei molteplici svelamenti dell’apparente mondo dei sensi impermanenti e inconsistenti, verso una realtà inqualificata e inqualificabile del vuoto: occhio che guarda distaccato e pacificato nel flusso impersonale delle cose: muta contemplazione. La grazia delle forme, la bellezza dei tagli, potranno essere dimenticati ma, l’abbondanza della natura figlierà altre forme, creerà altri seguiti, altre solitudini delle quali ne saranno ignoti sia i nomi che le voci, e sopravviveranno nell’ombra della storia contemplativa, per bellezza-armonia-diversità. I libri esposti sono stazioni di successivi itinerari personali, necessari per edificare dimore mentali in perenne divenire. Processione di colori di gestualità per carte rese stoffe, sete, veli. Colori che possono essere di atmosfere inverosimili, di paesaggi dai colori virati in altre luminosità, splendore dell’oscurità dei templi d’oriente. Luoghi poco conosciuti apparentemente trasandati, frammenti di architetture, dipinti su tavole, colore di travi patinate, pilastri e pavimenti nobilitati dal tempo e dal lieve calpestio di piedi scalzi. Elementi senza celebrità ma annobilitati e tratti dall’essere ignorati da chi cerca e guarda in altro modo. Quanto esposto non è frutto di un gioco di assemblaggi, sono immagini, concetti, intuizioni evolute con riserbo e discrezione, condotte con desiderio di rigore, di silenzio, lentezza, per allontanarsi dal chiacchiericcio, dall’assordante clangore della concitazione quotidiana. La ricerca di Balicco non riguarda la devozione o l’umile sottomissione al proprio tempo o la sfrontata ricerca del mercato, cerca con consapevolezza di mettersi contro la possibile spersonalizzazione del proprio tempo. Nel suo vivere la ricerca ambirebbe conferire alla vita una nuova sacralità che nessuna religione o filosofia le hanno indicato.
Ignazio Bellini
Perché questo titolo è riferito a quanto esposto? Perché non è possibile mettere da parte millenni di storia, di rimando culturale, di giorni d’un glorioso passato che si protrae nel tempo, così come il benvenuto nel regno dell’impermanenza o del “vuoto” per un’avventura mentale o per il flusso impersonale delle cose. Osservandola nel suo luogo di studio, le ho chiesto il motivo per la scelta della carta HANJI. Mi aspettavo, com’è consuetudine, una risposta colma di significati, motivazioni, di risvolti semantici e quant’altro. Viceversa nulla di quanto avevo previsto ma un imperturbabile e pacato:” perché mi piace”. Analizzando con maggior attenzione i suoi manufatti li ho percepiti come esercizi, momenti di meditazione, muta contemplazione delle cose. Meditazione, peraltro, che non ha nulla da spartire con la preghiera, visto che non c’è di mezzo la verbalità e pertanto nemmeno richieste a nessuna divinità. Dunque non evento estetico o decorativo ma intreccio di stimoli percettivi, sensoriali che tessono con mano silenziosa il suo progetto, che percorre l’ignoto sentiero di essere donna. Sfiorare la matericità HANJI, osservarne la trasparenza, la trama, la duttilità, la luminosità, il nitore, le hanno fatto riaffiorare il valore della leggerezza, un nuovo ritmo compositivo di particolare equilibrio, per il piacere di descrivere il sogno estromesso dalla gabbia della ragione. Per ora ha abbandonato la natura delle carte di rilevante grammatura, abrase, graffiate, erose. Nei lavori esposti, avverto come sia in grado di mutare il suo apparente monologo in dialogo che trascende il suo tempo, per allacciare con i fili della ricerca, tempi e luoghi distanti fra loro. La ricerca di Luisa Balicco inizia un’esperienza del tutto estranea a qualunque aspetto narrativo e illustrativo, ove la fantasia non si attenua e il sogno diviene una condizione ricorrente. Emerge l’intento di un’esecuzione radicata nella sua natura per rispondere alla spinta del pensiero e all’apprensione dello sguardo. Tramuta il colore delle carte HANJI in sentimento, il gesto in riflessione e lascia un’impronta nell’aggrovigliato collegamento tra sensibilità e realizzazione. Evoca il desiderio di un codice tendenzialmente neutro, proprio in noi abituati, ossessionati dalla distinzione: alto-basso, male-bene. La natura della carta HANJI le permette di avventurarsi nei molteplici svelamenti dell’apparente mondo dei sensi impermanenti e inconsistenti, verso una realtà inqualificata e inqualificabile del vuoto, occhio che guarda distaccato e pacificato nel flusso impersonale delle cose: muta contemplazione. La grazia delle forme, la bellezza dei tagli, potranno essere dimenticati ma, l’abbondanza della natura figlierà altre forme, creerà altri seguiti, altre solitudini, delle quali ne saranno ignoti sia i nomi che le voci e sopravviveranno nell’ombra della storia contemplativa, per bellezza-armonia-diversità. I libri e i quadri esposti sono stazioni di successivi itinerari personali, necessari per edificare dimore mentali in perenne divenire. L’uso delle carte HANJI rammenta processioni di colori, di gestualità per carte rese stoffe, sete, veli. Colori che possono essere di atmosfere inverosimili, di paesaggi dai toni virati in altre luminosità, splendore di luoghi e di templi d’oriente. Quanto esposto non è frutto di un gioco di assemblaggi, sono immagini, concetti, intuizioni evolute con riserbo e discrezione, condotte con desiderio di rigore, di silenzio, lentezza, per allontanarsi dal chiacchiericcio, dall’assordante clangore della concitazione quotidiana. L’analisi di Balicco non riguarda la devozione o l’umile sottomissione al proprio tempo o l’adeguamento sfrontato alla ricerca di mercato, cerca con consapevolezza di mettersi contro la possibile spersonalizzazione del proprio tempo. Non impone alla matericità HANJI qualsiasi uso, qualsiasi finalità ma ne esalta la naturale duttilità, lucentezza, consistenza. Tenacemente solitaria, persegue l’immagine tratto per tratto, colore per colore, dove l’immediatezza e la lentezza si alternano in accurate progressioni, per immagini seduttive e frammenti di sofisticate miniature. Nel suo vivere la ricerca ambirebbe conferire alla vita una nuova sacralità che nessuna religione o filosofia le hanno indicato.
De Rerum
Ignazio Bellini
“…è necessario operare in un ambito ove non sussistano gli arbitrari confini che separano gli artigiani dagli artisti”
GROPIUS – 1919
Luisa Balicco: per comprendere appieno le operazioni di ricerca è utile sottolineare che i suoi interventi scaturiscono dal rapporto con i luoghi intesi come “ genius loci” cercati in contrade spesso dimenticate, fermate di itinerari immateriali, impregnati di un tempo avulso da misurazioni di orologi e calendari, ove persistono quelle differenze che danno un senso al viaggiare.
E questo è uno dei temi sui quali l’autrice tornerà più volte in un rapporto tra i luoghi e la nostra visione del mondo.
A prima vista i lavori appaiono come contenitori di fogli ma di fatto vengono anche intesi come bozzetti per probabili allestimenti scenici dai quali enunciare racconti e testimonianze. Di fatto è anche presente un aspetto scenografico alludendo al concetto di forma isolata per uno spazio teatrale. Forme simulacro dove l’ originale significato degli spiriti totemici è stato sostituito da altri, consoni alla realtà dell’oggi.
Se i luoghi svelano ispirazioni che si possono affievolire mano a mano che passano gli anni e i decenni, in lei le percezioni si irrobustiscono sino a divenire incontenibili, come l’insistere con ardore sul potere espressivo, sul fascino di ciò che giace sbriciolato e sepolto sotto il peso schiacciante di una reale o apparente incuria.
Non è un caso che nei suoi lavori ( come non pensare alla danza di Shiva) si avvertano correnti dinamiche di colore che prendono forma e si disgregano, travolgono le sensazioni e le rigenerano nei colori dell’acqua brunita e turchese, nel buio marasmatico e muffito, in perlacee luminescenze di luci tenue e miti, Ciò che prende forma si disfa in strati metallici e vellutati, con riflessi profondi, frammenti di colore, cose, pensieri, tracce di forme, ombre di forme, con il desiderio di identificarne i dettagli trascurati, poco appariscenti, che possiedono una loro grandezza, anche se sempre diversi, temporanei, sfumati, evanescenti, quasi poco percettibili ad uno spettatore qualunque.
Zone marginali dove scorrono i fluidi di fiumi sotterranei, dove l’immaginazione è la possibilità di scoprire nelle fibre del reale lo spazio dell’avventura celato nelle pieghe della natura. Così come nelle terre d’oriente è d’uso negli antichi boschi appendere sui rami sinuosi carte e panni variopinti che il vento lacera e disperde, il sole fa virare, inesorabile, in altri colori: armoniosi e dissonanti, vigorosi e smunti: drappi dimenticati, comunque espressivi dello stato dell’anima.
Immagini che si sovrappongono al mito delle feste dette “ Floralia” in onore di Flora, dea romana della primavera e dei fiori, che spargeva i boccioli raccolti fra le pieghe della sua veste, disperdendoli con l’aiuto di Zefiro dio del fertile vento d’occidente.
Affiorano cose scomparse che non sono più accessibili altro che attraverso i loro spettri, presenti nelle forme in via d’estinzione come le parole, le idee, i linguaggi che le hanno generate.
Ebbene, ora appaiono le carte, bagagli simbolici, frantumi di tradizioni antiche elaborate con materiale vulnerabile alla manipolazione umana e agli agenti atmosferici del tempo. Le carte sono scelte per le composizioni calligrafiche e per le tracce degli inchiostri, per le superfici lisce o lievemente assorbenti ideali per catturare la natura espressiva e gestuale del pennello. Sono il corpo della ricerca, corpo vago, bianco come ossa, sul quale immaginare il tempo della vita.
Perché corpo vago? Per Leopardi, come ebbe a ricordare Italo Calvino nei “ Colloqui con uno scrittore”, il linguaggio è tanto più poetico quanto più è vago, impreciso, ma l’indeterminatezza necessita estrema precisione e meticolosità per la composizione di ogni immagine sia nella definizione dei dettagli che nella scelta dell’atmosfera.
Perciò vaghezza come precisione che coglie le sensazioni più sottili con mente analitica e selettiva attraverso mani sicure e intuizione della parentela fra mano e cosa, fra occhio e materia.
Nella stesura dei suoi racconti grafici Luisa Balicco usa prevalentemente la carta da lei prodotta. È carta ruvida, di grammatura consistente senza bordi definiti, volutamente sfrangiati. Sono visibili sovrapposizioni di altra natura, fogli di varie dimensioni e tonalità, tagliandi come piccole piattaforme di carico per i suoi diari di viaggio, per le narrazioni scritto-grafiche a volte cupe, cariche di pathos autentico, altre eteree come nuvole e comunque mai assenti di corporeità e fascinazione narrativa. La scelta della carta di fattura artigianale è per lei obbligatoria e nella trattazione materica necessita il controllo del respiro, la fluidità, l’immediatezza, il rigore del gesto ove l’idea senza ripensamenti è tradotta in forma, colore, pazienza e disciplina. Un altro aspetto che da un’altra angolazione può servire a conoscere meglio l’autrice consiste nel fatto che lei si compiace di essere vegetariana, ma credetemi, mente. So per certo che nel laboratorio del suo studio è una impenitente cartivora.
Tratta la carta con differenti modalità esaltandone la rigidità, la flessibilità e le suggestioni delle tonalità, ove appaiono come motivi guida gli studi effettuati nei viaggi in oriente, l’esperienze effettuate nei National Trust d’Inghilterra, nei giardini botanici, nel minuscolo appezzamento di casa. Lembi di terre per abitanti di tane ombrose, di tappeti di felci per vagare sopra un mare calmo, scrollato, si fa per dire, solamente da un leggero vento di brezza che ad altri porterebbe null’altro se non ché, noia ed inutilità.
Il suo spirito guida si sviluppa in virtù di un continuo processo di elaborazioni atte a caratterizzare la natura cartacea, come la luminosità soffusa, l’accenno a delicate o intense penombre, dove il segreto è insito nella carta medesima, nell’esplorazione dell’indeterminato che diventa osservazione del molteplice.
Nella ricerca, può apparire che l’interesse per le vicende dell’umano siano periferiche ai racconti, ma ad un più attento esame emergono ricordi e rimandi ad una diversa umanità percepita da differenti angolazioni, sia nella quotidianità dell’osservazione che nel vivere a stretto contatto degli eventi e del vissuto.
Non posso tralasciare di ricordare le parole di Italo Calvino ove asseriva che:
“…viviamo sotto una pioggia ininterrotta di immagini; i più potenti media non fanno che trasformare il mondo in immagini moltiplicandolo attraverso una fantasmagoria di giochi di specchi, immagini che in gran parte sono prive della necessità interna che dovrebbe caratterizzare ogni immagine, come ricchezza di significati possibili. Gran parte di questa nuvola di immagini si dissolve come sogni che non lasciano traccia; ma non si dissolve una sensazione d’estraneità e di disagio.”
La finalità del lavoro di ricerca consiste proprio nel dare espressione agli eventi, senza l’obiettivo di documentare con immagini reali l’accaduto e quanto tutt’ora accade. Riuscire ad individuare una serie di tracce anche se la maggior parte degli indizi rimane invisibile, intuendo la presenza di esili filamenti senza riuscire a rintracciarne l’origine.
Ricorrono le immagini di quanto visto anche nei campi di contenzione e di rieducazione non solo d’occidente ma nell’amnesia occidentale dei luoghi d’oriente.
È la scoperta di una realtà in cui la prevaricazione, l’oltraggio, la sopraffazione sono divenute regole, olocausti e genocidi senza rumore, attutiti.
Nelle immagini delle forme non c’è intento di cronaca ma un’accezione più generale e penetrante, come i denti del tempo.
Le annotazioni di livide macchie, le abrasioni sulla carta come sfregi ed ecchimosi, i colori che si fanno terrei, smunti,esangui, l’aggredire l’aspetto pittorico, fanno presenti, senza l’impatto palese del macabro, i termini inconfondibili delle atrocità della storia, le rozze ideologie dei campi di rieducazione, i riti del razionale, la ferocia che ha violentato, defraudato e umiliato l’umanità nella sua più intima sostanza, nella sua stessa esistenza biologica costringendola a scelte devianti, dove la luce dapprima diventa ombra ed infine inesorabile oscurità. Lunga e misera eroica storia di abusi e maltrattamenti in un gracidio di immagini, stridori e stonature che scendono nelle orecchie.
E neppure è dimentica di una società con il desiderio all’opacità esistenziale, confusa, annegata nelle forme più banali di pubblicità cartacee, simboli delle fantasie allineati nei mercati folklorici, che rappresentano in codice altri messaggi, ricchi di promesse versatili, essenziali, come la più onnipresente delle forme che la carta può prendere: la più sfarzosa che ci inebria con quell’ afrore che sa di lusso esclusivo, ma deformi serbatoi della memoria collettiva.
È tutto ciò che in modo effimero suggerisce una garanzia, una firma, una promessa, che Warhol con abile trucco e buon gioco di prestigio ci ha reso familiari.
Per lei la carta, anche privata dalla sua finalità primaria, può essere evocativa come i residui di vecchi posters che gravano incollati sui muri come rimasugli precedenti, a tal punto che quelli nuovi quasi non possono più aderire. Fodere musive, coltri che si ispessiscono via via che si occupa tutto lo spazio, drappeggi che ricadono sino al suolo.
La spessa crosta aggrappata ad un muro finisce per spellarsi, raggrumarsi in incrostazioni e fessurazioni dove sotto quegli strappi e quei tagli si possono ancora scorgere le tracce di altri sbrindellati manifesti in decomposizione, quasi carte ammalate. Tuttavia vi si possono ravvisare nuovi paesaggi, fantasiose architetture in rovina, rimandi a mondi pittorici e forse la possibilità di conferire agli ignari incollatori di carte sui muri di pietra, l’alloro di inconsapevoli artisti: iperbole? Forse.
Quando penso alle carte, la memoria corre a letture giovanili dove:
“Quella misteriosa circolazione cartacea che gira per Londra, quando tira vento e turbina dappertutto, si appende ad ogni cespuglio, svolazza da un albero all’altro, s’impiglia tra i fili elettrici, penetra in ogni recinto, si acquatta in ogni griglia, trema su ogni ciuffo d’erba, cerca riposo invano dietro legioni di cancellate.”
DICKENS
L’apprezzamento e l’empatia con ciò che si osserva è un fatto di interpretazione legato alla propria sensibilità e all’esercizio dell’occhio educato all’osservare.
In sostanza, è possibile riuscire a percepire le qualità umane che il manufatto trasmette senza necessariamente essere un addetto ai lavori o uno specialista. Negli elaborati esposti la carta, protagonista attiva e viva della composizione, non è solamente supporto per lo scritto/pittorico, la sua struttura, il tessuto delle fibre naturali, la capacità assorbente, rendono quasi impossibile definire a priori gli effetti che il passaggio delle setole del pennello e soprattutto dei colori, potranno creare. La carta è parte integrante dell’opera anche fisicamente e tutto ciò che non è tratto e campitura di colore, è il fondo, che non significa assenza, ma nota silenziosa, solida pausa. Le opere sono intese in forma composita ove più elementi sono riuniti in un essenziale sintesi volumetrica. Suggeriscono una reale praticità oggettiva come il contenitore in legno e riferimenti strumentali come il rimando agli utensili per la lavorazione della carta, della stampa.
A volte non è importante ciò che si “ scrive”: il percorso sinuoso di un fiume è scrittura sulla pagina della terra, le sezioni verticali su un taglio d’albero sono la scrittura sul legno, gli inglobamenti di minerali in un sasso sono scrittura sulla pietra.Come le nubi, per chi le sa leggere, sono fuggevoli scritti nel cielo e le radici degli alberi di Angkor sono messaggi fra le pietre, danze scritte con i rami che narrano di eventi lontani. Sono pluralità estese, corrugate, incise, antropiche.
Ciò non vuole significare immobilità, bensì desiderio di attendersi quanto ogni luogo può, in potenza, esprimere se interrogato.
Poi c’è la musica della danza che lascia impronte affidate ad un linguaggio e ad una segnica astratta, capace di dare parola alla sostanza fiammeggiante dell’animo umano: il visibile dà senso e profondità all’invisibile.
Sotto l’aspetto dinamico, la stesura del colore, la scrittura, rappresentano il diagramma continuo di una danza. Danza della mano, danza delle dita, danza del braccio. Danza simbolica che trascina il corpo e lo spirito che si fa partecipe del fluire vitale del cosmo, a cui sono ignote le soste.
Lo spirito dell’artista non risiede unicamente nel passato ma coglie il nuovo senza perdere l’antico.
Si tratta di assimilare le opere dei tempi precedenti alla propria coscienza, perché l’arte può, o deve, armonizzarsi con lo spirito della propria epoca. All’osservatore il compito di fare le dovute analisi e le relative sintesi con l’emozioni e la consapevolezza di essere, contemporaneamente, privo o detentore di ogni strumento di interpretazione. L’artista può esprimersi attraverso qualsiasi mezzo perché non ci possono essere percorsi ammessi dalle regole e percorsi riprovati dalle medesime.
La poesia non può essere circondata da quell’aura di portento, come richiede la tradizione romantica in cui viviamo ancora oggi.
Può essere qualcosa di semplice, colto lungo il cammino della vita ordinaria.
Le rosse foglie degli aceri
Che cadono per valli lontane
Senza che alcuno le veda
Sono come broccato
Sepolto dalla notte
KI NO TSURAYUKI
Ciò che importa è riuscire a trasmettere sui fogli quello spirito e quella emozione veicolo all’atto creativo. Ogni tratto, ogni carattere, sono l’espressione dell’interiorità e la gestualità è tramite per un itinerario che dalla mente fluisce al corpo. È disciplina dell’esperienza che non si pone come obiettivo, teorizzazioni e speculazioni che generalmente sono patrimonio di convinti discettatori di epoche pigre per assestamenti culturali. Se i mezzi appartengono a tradizioni del passato, le modalità usate appartengono alla contemporaneità che rifiuta ogni approccio rigido, artificioso, simmetrico. Tuttavia alla libertà espressiva l’autrice è giunta dopo lunghi anni di pratica, di studio solitario, dedizione e insegnamento, seguendo regole da lei scelte, percorsi selettivi in cui apprendere le tecniche e comprenderne i significati. La natura gradisce la fiducia che si pone in essa e pertanto l’artista prende la natura come magistra di verità e bellezza. Natura magistra per virtù spirituale che indica lo spirito della nascita, del divenire, del compimento, della crescita. Ha scelto una narrazione che, nelle sue intenzioni possa aprire a un pensiero non solo estetico bensì analitico, mnemonico, proiettivo, dove
Un'incessante ricerca dei nostri antenati,
che per definizione sono lontani da noi ma ci appartengono,
che ci hanno generati e che noi rigeneriamo ogni volta che li evochiamo nel presente.
SATTIS
In questo piccolo spazio espositivo ha pensato di dare risalto agli elementi responsabili come trasmettitori delle costanti, non solo formali, che dovrebbero suggerire quei significati dei quali spesso ci si scorda di comprenderne le ragioni. Penso che abbandonare il patrimonio di una civiltà significhi abbandonare la civiltà. Ciò non significa che non sia possibile avvicinare aspetti differenti dal proprio essere e partecipare a plurime esperienze, ma ciò avviene (come l'integrazione nel sociale) con lentezza e consapevolezza, non per cooptazione e convenienze.
Solo con il trascorrere del tempo può riprendere forma una nuova visione della vita, con proprie modalità esistenziali, con rinnovati equilibri, nuove estetiche, perché le modalità di nuove culture si distillano attraverso generazioni. Ogni particolare del nostro vissuto porta tessuto in sé quei fili segreti che traggono le proprie radici da periodi particolarmente felici della sensibilità a volte sublime o drammatica o devastante, propria degli artisti, dei poeti, dei filosofi o matematici, attori, intellettuali, aristocratici o ribelli, di tutti quei giardinieri dell'endocosmo che curano con genio le nostre concezioni: comunque maestri del vivere.
È veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con il suo tempo né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale.
Ma proprio per questo anacronismo, egli è capace di percepire e afferrare il suo tempo.
NIETZSCHE
L’interpretazione è libera, lasciata alla sensibilità di chi crea e di chi osserva e a quel sottile e prorompente soffio di emozioni che ogni opera può essere capace di suscitare. Nella grafia del segno e del colore contemporaneo, dove il concetto per cui non è importante ciò che si “ scrive” porta ad esprimere segni esasperati in forme in cui può essere difficile leggere il significato, ma riescono a sprigionare un’energia estetica e comunicativa che può lasciare sorpreso o spiazzato l’osservatore, colpito da un vortice di emozioni o dal vuoto della mente.
L’Autrice crea opere in seguito alle emozioni provate dalle letture di brani letterari, di una poesia, dallo stupore di essere viaggiatrice e dalla possibilità di rendere il quotidiano cerimonia e le funzioni della vita regolate come rito.
Tante cose con cura trascritte
In nerissimo inchiostro per potenza e nitore
Impresse con tenue colore per sensualità e morbida raffinatezza
Furono poi cancellate dall'acqua
I segni segreti del cuore
Mai e poi mai li cancelli
Neppure volendo.
LOVE SONGS DEL 6° DALAY LAMA
Ignazio Bellini
Le modalità attraverso cui si sviluppa il linguaggio pittorico e tridimensionale sono improntate ad una concezione degli elementi naturalistici come aventi vita propria, perciò visti come soggetti e non come oggetti o elementi di supporto, anche se tale potrebbe sembrare la loro funzione. Il risultato della ricerca risiede non solo in quel che si vede, ma in ciò che viene evocato, nell’incertezza dell’immaginazione e nel dare significati possibili al reale. È il risultato felice di uno stato intuitivo della mente e non può, in quanto tale, essere riconosciuto se non intuitivamente. Le strutture tridimensionali e i disegni sono belli in sé e per sé, qualsiasi altro significato essi possano avere è un aspetto marginale, se pur curioso o interessante. È intenzionale la ricerca del senso di essenzialità e concentrazione, per favorire una comprensione prevalentemente intuitiva e percettiva anziché solamente razionale e logica. Motivi apparentemente astratti fanno da catalizzatore per la mente, evocando altre immagini presenti nella natura con caratteri temporali e tipici del variare delle stagioni per colori e matericità, sia nella fluttuante dislocazione dei rami, come nella composizione di un giardino silenzioso: spazio delle differenze, con camelie per i rigori dell’inverno; azalee, iris e glicini per la primavera; ortensie e gigli per l’estate; bacche e salvie per l’autunno, quando anche gli alberi mutano d’umore e assumono sfumature cupe e squillanti. Le dislocazioni asimmetriche delle forme, le scomposizioni, l’uso degli spazi vuoti possono apparire arbitrari, ma solo se si crede che ogni cosa debba essere rappresentata nella sua interezza, senza imperfezioni e anormalità. Anche le dissonanze sono in un certo senso espressione di qualcosa. Lo spazio non occupato, il non dipinto, così come le visioni parziali e frammentate degli elementi volumetrici, sono essenziali per l’effetto d’insieme, come e quanto le parti più rilevanti e servono a suggerire legami di relazioni e atmosfere introspettive. Superficie e profondità, interno ed esterno, fra mondo scritto e non scritto, si possono configurare come apparenti antagonismi, ma non sono intesi per probabili separazioni, bensì per il molteplice fascino del narrare situazioni complementari. Narrare con tracce pertinenti al segno e alla calligrafia, esercizi di struttura e di descrizione per un linguaggio delle cose, presagi di un mondo il cui passato potrebbe svanire nella fugacità di una comunicazione senza carta e senza inchiostro.
Le ramificazioni particolarmente contorte e segnate dal tempo, i semi, le candide madreperle, i filamenti, racchiudono messaggi complessi e colmi di sensazioni.
Le foglie d'oro, d'argento, le campiture di intensa e soffusa matericità, i metalli, la varietà delle forme, i minimi dettagli non sono pensati per ambienti particolarmente luminosi, ove disegno e forme appaiono nella loro peculiare interezza, bensì per luoghi dove l'ombra vive con le forme e ne evochi le presenze.
Le velature bidimensionali, le patine, i metalli consunti e il riutilizzo di forme dismesse, suggeriscono un’atmosfera come se si trattasse di reperti e frammenti di rovine, frammenti di un vissuto, pluralità aggrovigliate, erosioni naturali, dove i segni dell’usura rimandano al sentimento melanconico della transitorietà, all’impermanenza delle cose, ma non al degrado, o allo scadimento che si accompagna alla massificazione dei consumi e alle produzioni seriali.
Nella discontinuità delle funzioni, le forme uniscono parti della realtà lontane fra loro, sono libere associazioni, sintesi di elementi disparati, tenuti insieme da un avvenimento e dall’emozione che esso produce. Le forme sono solo mutate, come il tempo ci muta, ma ancora ci appartengono sotto un altro aspetto, hanno solamente cessato di essere ciò che ha voluto fossero il primo ideatore, per avviare ulteriori metamorfosi in forme disarticolate, tradizionalmente riconosciute per altre funzioni. Le tonalità cromatiche dei materiali diverranno altro, subendo l’azione esercitata dal tempo sulla natura dei materiali con soffuse opacità, ossidazioni paludose, vaghe luminescenze, bruniture terrose. Le configurazioni potrebbero entrare a far parte di un contesto conosciuto, o fare emergere vaghe reminescenze, ricostruendo immagini suggerite da allusioni o riferimenti culturali.Il passato può essere in parte omogeneo al presente e nella rivalutazione del senso della memoria, in termini non retorici, ogni forma dotata di significato è pur sempre qualcosa che ricorda. Le forme uniscono il passato al presente e appaiono come una moltitudine di cose distinte anche se interrelate su vari livelli. Ricordare quindi non è semplice rievocazione di un evento passato, poiché la trasmissione del ricordo oltre a custodire l’evento stesso lo restituisce ad una nuova vita nel momento in cui viene rimesso nel circolo della narrazione.
Le carte sono scelte per le composizioni calligrafiche e per le tracce degli inchiostri, per le superfici lisce o lievemente assorbenti, ideali per catturare la natura espressiva e gestuale del pennello. I disegni sono serrati e ben intonati come smalti policromi delle lacche, le campiture cangianti svaniscono nelle tonalità stemperate sprigionando a tratti evanescenti sfavillii. I colori sono prevalentemente scuri con sfumature di terra, grigio cenere, nere inclusioni, indaco, rosso profondo, bruno tè. I rotoli-libri si svolgono in lunghe strisce orizzontali e vi convivono indifferentemente i segni della parola con le tracce del pennello. Si predilige la gradevolezza dell’inchiostro, la precisa articolazione degli elementi tridimensionali dalle raffinate matericità, l’alternarsi dell’astratta fluidità del segno con la minuziosa annotazione di brevi episodi. Si mescolano ancora caratteri larghi e sottili, scuri e chiari, grandi e piccoli, in continua variazione di forma e di grandezza, in una costante combinatoria dei segni della scrittura e delle forme tridimensionali, dove tutto si interseca e si trasforma: le cose, i luoghi e le ambientazioni in quell’ inquieta combinazione e nel groviglio di contraddizioni che sono connaturate in noi. Sono impianti scenici, meccanismi metaforici, ricami dell’immaginazione sulla trama del linguaggio e sulle immagini della forma che intendono visualizzare il fluire di episodi vissuti. La fascia dai toni luminosi e dalle chiosature aneddotiche, è segnata da dislocazioni lungo il percorso di lettura, con un itinerario diritto e regolare, con una gerarchia di forme primarie come le corone circolari, le aree quadrate, le presenze verticali o il portale che accoglie e protegge il piccolo rullo matrice segnato dagli eventi e posizionato centralmente su un simbolico offertorio. Il colore è usato per dare risalto alle forme e delinearne le differenze volumetriche, costituendo nel medesimo tempo elementi strutturali. Le strisce che passano fra i rotoli orizzontali sono sostenute da tenui cavi che le reggono e ne segnano le relazioni: sono linee e tracce che congiungono punti a vettori di forze. Altre sono sospese in verticale fra rotoli pinnacolati lievi e slanciati che ne delimitano il percorso e
“la delimitazione non è ciò su cui una cosa si arresta ma, come i greci riconobbero, è ciò da cui una cosa inizia la sua presenza”.
( Heidegger)
La fascia si snoda tra una figura-sfondo verticale e nitidi tutori che scandiscono i tempi e gli spazi del percorso narrativo e servono come sostegni per la dislocazione di un fragile ponte-cartiglio, leggero e simbolico quasi gettato nel vuoto. La figura-sfondo verticale va letta come uno spirito guardiano che funge da orientamento; è una figura fulcro che suggerisce estensioni nelle diverse direzioni e nel contempo è asse di congiunzione, incrocio e luogo di incontro. Poggia sul terreno, si eleva come promontorio-torre affiancato da isole con caratteri distintivi sormontate da pietre-montagne. Sono isole-appendici per dare identità ad un luogo visto dall’alto e ripreso verticalmente dalla bulinatura su ferro ossidato e collocato sulla parte culminante della forma-sfondo.
Le isole sono elementi che da un' iniziale forma relativamente unitaria giungono per differenziamento a forme autonome, distinte e tuttavia, per altri legami non si può impedirne l'ibridazione. Le isole non significano l'abolizione della possibilità dello scambio, del contatto, anche se appaiono come forme nel vuoto, come pause nel suono. Attraverso un flusso che porta altri caratteri, le isole non interrompono relazioni, vincoli, alleanze. Le isole, un po' come gli isolati urbani, rappresentano un reciproco elemento di passaggio. L'isola come l'insula romana, ha quindi un significato spaziale circoscritto solo nella superficie ma con estensioni e relazioni ramificate.
Isole erranti che antiche leggende descrivevano come capaci di spostarsi.
Isole umane nel mare degli uomini vaganti e mutevoli.
Isole come piattaforme rialzate tendenti non a ridurre, ma a creare contatti.
Anche gli archi sono intesi come parte del tempo ove fluisce l’armonia dei colori e l’armonia delle forme, portali dove passano differenti sentieri. Sono diversi fra loro perché il tempo non scorre per tutti nello stesso modo e non sempre nelle medesime direzioni. Le stele, infisse verticalmente e fregiate della loro solitudine, appaiono ricche di colore e matericità come segni per l’identificazione di luoghi silenziosi; possiedono un proprio lessico formale, sono realizzate con materiali semplici, cercati ed elaborati con precisione, determinazione, maestria artigianale e con l’attenzione per quanto e per come le cose sanno comunicare anche nell’ assenza del suono delle parole.
Sono stazioni di un pellegrinaggio nel quale chi ricerca, trova il senso di viaggi visionari e il senso di tante letture. Nell’insieme emergono strutture complesse e raffinate che mostrano direttamente nelle forme il loro scopo, la loro struttura e conferiscono un proprio patrimonio di idee e di pensieri. Suggeriscono eventi che si concatenano con forme strettamente legate alle immagini di porzioni di spazi, forme e segni che contraddistinguono luoghi rarefatti per ipotetici assetti urbani, con vocazione ad essere punti di incontro esistenziale. Luoghi percorribili che possano mantenere la loro identità anche nel cambiamento in un mondo mutevole, enigmatico.
Ignazio Bellini
Per anni mi recitava piccoli parti di poesie che tanto tempo prima aveva composto, pezzi che emergevano nella sua memoria in frammenti brevi, di scritti dimenticati. Io ho molto insistito e solo pochi anni prima di morire ha scritto quanto si ricordava.
Un giorno io le ho dato alcune cose mie, era la prima volta che leggeva le mie riflessioni, qualche giorno dopo mi ha consegnato una poesia dedicata a me.
È iniziato un periodo breve, ma intenso, con scambi continui di versi, così forte che a volte i nostri scritti recavano, anche se in forma diversa, le stesse sensazioni ed immagini, ne è un esempio lo scritto sui merli che reca quasi la stessa data.
Così come è iniziata questa fase dei nostri rapporti è terminata, io ho continuato a scrivere, lei non è più riuscita, aveva quasi novant'anni.
Le ultime poesie rivelano una scrittura tremolante, mi confessava che le aveva trascritte più volte ma ormai la sua bella calligrafia se ne era andata, malgrado si sforzasse di ritrovarla, questo la lasciava frustrata e atterrita.
I nostri rapporti non sono stati sempre così, continui diverbi hanno costellato i miei anni di gioventù e ancora per lungo tempo dopo. Poi qualcosa è mutato, insieme abbiamo coltivato un sentimento nuovo che è cresciuto come una pianta forte.
Lei ha smesso di tentare di dirigere la mia vita, ha, se si può dire, passato la mano, io ho preso in mano la sua. Non è sempre stato facile, avevamo entrambe caratteri indipendenti. Con gli anni lei ha acconsentito che io lentamente l'accompagnassi ai confini della vita. Si è affidata. Io l'ho tenuta stretta e l'ho portata, spero a non avere paura.
Luisa Balicco
Un tempo dipingevo, usavo colori e torchio, stampavo microcosmi vegetali dove vagavano insetti, poi nei quadri è entrata la figura umana ma solo parti di essa, frammenti, tracce, rimasugli evocativi.
Evocativi di cosa?
Dei miti, degli Dei, dei luoghi sacri.
Quando lavoro faccio un inconscia opera di ripescaggio, scopro poi, quando razionalizzo il percorso che le forme e gli scritti che spesso accompagnano le “ forme evocative” sono parti di antiche letture e di immagini da tempo stratificate. Lo stimolo e quasi sempre di natura letteraria e le forme naturali che da sempre raccolgo, sono l’elemento sul quale aggregare volti, mani, parole. Il mito degli alberi sacri ha da sempre segnato la mia fantasia e creato l’emozione di un luogo sacro, inviolabile e terribile; così ho continuamente rincorso, cercando di ricreare, alberi unici, magici simboli del “ giardino”.
Teste tagliate sono lavori su cui ho molto meditato, quella della decollazione, la testa sul piatto è un tema che mi ha sempre emozionato perché l’ ho sempre identificato come la conquista della solitudine sia per la vittima che per il carnefice. Negli anni la maggior parte dei lavori è stata distrutta, le parti scomposte riutilizzata in altre composizioni; è sempre stato un lavoro circolare, effimero nel tempo, come l’uso dei materiali che prediligo carte ingiallite, stoffe, radici, oggetti raccolti anche molti anni prima, e che solo in particolari momenti, si combinano trovando anche le parole su cui accompagnarsi.
La collocazione e la scelta della luce sono importanti, preferisco che intorno alle “ forme evocative” ci sia il buio e la luce crei atmosfere scenografiche, ho bisogno di legare le forme alle loro ombre in un insieme continuo, i rami veri e l’ombra dei rami sono parti di un tutto. Questi oggetti non sono mai soli ma vivono in una relazione dialogante, come insiemi armonici.
Luisa Balicco – 2000
Rami consumati dalle intemperie, trovati sulla riva del mare, sassi levigati e corrosi dall’acqua e dall’attrito con altri sassi, fili d’erba che compongono trame e si legano ai testi di Emily Dickinson, mia maestra ispiratrice.
Lo sguardo ironico della Dickinson si è incontrato con il mio pensiero; Le sue poesie, diventano le mie forme. Le parole diventano bianche conchiglie. I rami secchi diventano vene pulsanti con il sangue che batte all’estremità. Le parole vengono accolte ed assorbite da carte dipinte, acidate stropicciate e poi stirate ed abbandonate all’acqua o dimenticate al sole.
Le frasi trovano supporto in rami secchi e in scattanti strisce di metalli corrosi. La mitologia entra con “ gli alberi sacri”; l’ulivo di Apollo. Il giardino delle Esperidi, l’albero che trattiene il vello d’oro, sono sospesi tra terra e cielo, presenze armate di denti e ferri, fortificati contro la rapacità, attrezzati alla difesa, custodi di beni preziosi. I sassi su cui i rami si appoggiano o che sfiorano sono spaccati da solchi profondi o lisci o incisi da incrostazioni su di loro sono stati applicati o intrecciati metalli. Ho cucito con infinita cura anche se talvolta in modo maldestro, foglie su carta e tela, ho cercato con materiali che si consumano nel tempo, di fermare un attimo, una sensazione, un pensiero, lo spazio sospeso tra il mito ed il sogno; ho cercato nella sospensione delle forme di staccarmi dalla gravità del reale, del conosciuto, del senza segreti, dalle forze che ci attraggono verso il basso e ci impediscono si volare. Altri alberi hanno perso le difese, gli alberi con nidi avvolti in chiome nebbiose, ma luccicanti e percorsi da strisce da parole che si insinuano nella chioma come frecce.
Questi alberi si ergono da basamenti o uova o sassi e non hanno contatto con l’umano, non sostengono bocche, non sono appoggio di mani, non hanno appeso ai rami frasi o parole, ma sono testimonianze di un’armonia antica dove albero, terra, sasso, foglia, nido, sono indissolubilmente uniti, abitanti un mondo dove l’umano non ha spazio e il tempo batte ritmi a noi sconosciuti. Non tutto deve essere spiegato, rimane sempre una zona inesplorata volutamente tenuta nascosta, questo fa parte del lavoro di ognuno di noi, “ la parte solo per sé”.
I disegni e le riflessioni che hanno accompagnato passo dopo passo il lavoro sono stati supporto e chiarimento, a volte hanno anticipato il lavoro, altre volte lo hanno rincorso, fermando i passaggi, i dubbi, le sicurezze. Ho usato i materiali e i colori con cui mi esprimo meglio, i marroni e i colori preziosi, cari agli dei; il bagliore dei metalli, la morbidezza dei colori del bosco e i colori abbaglianti delle icone.
La scrittura è il piacere, il gusto di scrivere e riscrivere le stesse parole, per fermare il pensiero e trovare la giusta cadenza.
Straordinaria è stata la scoperta dei metalli, la loro duttilità, il forte contrasto che si crea accostandoli alle forme naturali a cui fanno da sostegno.
Luisa Balicco – 2005
…la mia ricerca diviene sempre meno rappresentativa, sempre meno copia esteriore; sono ricordi, frammenti, pezzi staccati di silenzi e solitudini, frammenti collocati secondo schemi geometrici che si rifanno allo spazio chiaro del giorno, all’armonioso fluire dei pensieri, ai luoghi del ricordo, ai luoghi dell’incontro...
Luisa Balicco – 2006